Il “dopo di noi” dal paradigma assistenziale a quello dei diritti
Riportiamo per intero un nostro articolo pubblicato sul numero 37/2020 della rivista Neuroscienze AENOMOS
La comunità internazionale, attraverso la Convenzione ONU riconosce il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adotta misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società. Il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità deriva dal considerarle come parte della diversità umana e dell’umanità stessa. [Convenzione ONU per i diritti delle persone disabili – 2006]
Il termine “dopo di noi” nasce nei primi anni ’80 per indicare quel periodo di tempo che seguirà nella vita di un cittadino con deficit alla dipartita dei genitori. Nella sua origine concettuale segnava quindi un momento preciso dal punto di vista cronologico, ma andava anche a definire un modo con cui guardare e pensare la persona con deficit: qualcuno di cui prendersi cura, prima da parte dei genitori e dopo da chi ne verrà incaricato a livello istituzionale.
In tale ottica – ancora oggi prevalente – la vita della persona con deficit (soprattutto se di tipo intellettivo) viene immaginata per lo più in modo statico, all’interno di un passaggio di consegne spesso di tipo economico/amministrativo e assistenzialistico; un’ottica che accetta e prevede un futuro limitato in termini di opportunità, una attenzione soprattutto verso una protezione da rischi e aggravamenti.
Questo pensiero rischia di generare una sorta di “narrazione progettuale” in cui la persona con deficit è oggetto di cure più che soggetto da capacitare; una narrazione in cui il punto di vista di chi tesse la trama non è quello della Persona, ma piuttosto quello che caratterizza chi se ne occupa che, di volta in volta, “sa cosa è bene, cosa è meglio per lei”.
Nel pensare al “dopo di noi” prende molto spazio la preoccupazione del genitore riguardo al chi si occuperà del proprio figlio che non il futuro stesso dal punto di vista del figlio; una preoccupazione che ha un effetto alone e che rischia di distogliere l’attenzione da un mentre che si evolve e che richiede molte attenzioni. Il “dopo di noi” non può coincidere solamente con la perdita del genitore, ma deve necessariamente riguardare, prima ancora che il doloroso evento avvenga, un altro concetto che riguarda il “pensami adulto”.
Cerchiamo di rimanere all’interno di questo ambito e proviamo a porci un interrogativo: cosa accade alla persona “normodotata” quando i genitori invecchiano? Cosa le succede prima di arrivare a quel momento? Come vivono i genitori questo suo evolvere e maturare?
I pensieri, i sogni, le aspettative di chi cresce un figlio dovrebbero intrecciare progetti e scelte a illusioni e fantasie di un futuro pieno di opportunità, incertezze, speranze e anche illusioni, pensieri di un futuro ricco di possibilità.
Per la persona “normodotata” crescere significa aprirsi al mondo, sognare un futuro, mettere in atto azioni per costruirlo e realizzarlo, incontrare gli altri, tessere relazioni di varia natura, incontrare ostacoli, imprevisti e delusioni di fronte ai quali doversi rigiocare nuovamente. La prima età adulta è abitualmente caratterizzata da una vera e propria esplosione di opportunità: varietà di esperienze, esplorazione dell’identità e maggiore assunzione di rischi (Arnett, Tanner, 2016).
Il diventare adulti nella vita dei “normodotati” non è progettato, organizzato e deciso a tavolino con scansioni orarie e attività propedeutiche, ma è un percorso che inizia dalla nascita e che si alimenta giorno dopo giorno di sogni, illusioni da ridimensionare o da espandere, speranze, prove ed errori, rinunce, …
E per la persona con deficit? Cosa incontra durante il suo crescere?
Accade spesso che la varietà di pensieri che su di lei fanno i famigliari, le persone che a vario titolo la circondano, sia piuttosto ristretta e tutto quel nascere nella mente dei genitori di pensieri, speranze, illusioni, progetti… si scontra con il quadro di limiti definiti dalla diagnosi.
Progetti, incertezze, sogni, illusioni, rischi…vengono drasticamente preclusi e il ventaglio delle prospettive di vita si richiude a poche e omologate opzioni preorganizzate da altri alle quali poter accedere sulla base di una valutazione dei prerequisiti.
Nel suo percorso di crescita purtroppo spesso viene a mancare tutta quella esplosione di opportunità, fino a che, ad un certo punto, accade che il contesto (educatori, genitori, terapisti), inizia a preoccuparsi del futuro e a chiedergli: “Su! Ora devi diventare adulto, forza cresci, impara a fare a meno dei genitori… accetta di andare a fare esperienze di vita autonoma, impara a cucinare, impara a prendere l’autobus,…, perchè presto sarai solo!”. Una spinta alla crescita sollecitata dall’esterno e intimamente legata alla prospettiva di perdita dei genitori e non coltivata internamente, legata e generata dal desiderare di crescere di per sè stesso, di emanciparsi, come conquista ambita, a prescindere dalla prospettiva di perdita. Una richiesta di apprendere e crescere non legato ad una spinta esistenziale ma quale esigenza collegata ad una dolorosa separazione.
Si genera così in maniera implicita ed improvvisa, una richiesta di questo tipo: “svelto, ora devi diventare adulto perchè io sto invecchiando!”
Manca ancora spesso un allargare la riflessione e includere, accanto alla preoccupazione, una dimensione dove in anticipo si progetta la possibilità di potersi un giorno percepire e pensare adulto, condizione che nella vita di tutti coincide con un momento del ciclo vitale della famiglia in cui i genitori non sono più l’unico riferimento e l’unico universo a cui guardare. L’idea di un ciclo di vita richiama la necessità di immaginare fin dall’inizio un lungo percorso di crescita, di maturazione della persona, verso un divenire adulto, maturando in sé un’identità e una consapevolezza tali da poter contrastare e sopravvivere con una buona qualità di vita anche (ma non in funzione) all’evento doloroso caratterizzato dalla morte dei genitori.
La nascita di una persona con deficit
La nascita di un figlio con disabilità porta in famiglia un grande disorientamento. La gioia di avere un bambino, il prendersi cura di lui e vedere giorno dopo giorno i suoi successi, pensare al suo futuro, vederlo crescere, stringere amicizie, coltivare passioni, trovarsi un lavoro… Tutto questo è una prospettiva che viene messa di frequente a dura prova di fronte all’arrivo di una diagnosi. Sindrome di Down, Autismo, X fragile, … rischiano di suonare come nefaste profezie e propongono nell’immaginario, spesso confermato anche dalle parole di molti professionisti, un lungo elenco di tutto ciò che quel bambino non potrà mai fare.
Il momento in cui si cerca di prendere atto della situazione, di comprendere le condizioni imposte dalla disabilità – la diagnosi – porta ad una serie di pensieri che trasportano e trasferiscono gli stessi limiti descritti dalla diagnosi direttamente alla possibilità di progettare e provocare occasioni per lei – occasioni che sappiamo essere fondamentali per un percorso di crescita verso un divenire adulti. Il non illudersi, che vuole per lo più essere un consigliare di “accettare lo stato di disabilità”, porta il rischio di essere scambiato con il consiglio a non immaginare, non pensare a troppe opportunità, …, ma il ridurre, il non sognare possibilità, il non guardare al futuro – se non per ciò che preoccupa – rischia di attivare una profonda condizione di rinuncia, dell’accontentarsi, del non avere aspettative, del non investire affettivamente in possibilità.
Così il limite portato dalla disabilità diviene un limite anche nella mente di chi accudisce, sostiene, si prende cura, diventa un limite al progettare una vita in continua evoluzione.
Da una parte l’ostacolo portato dalla disabilità, dall’altra l’ostacolo portato da un pensiero che dice “non si può fare, vietato illudersi, precluso il crescere”.
Fin dalla primissima infanzia il genitore viene “invitato” a non illudersi e accompagnato verso la rinuncia a sognare un futuro ricco, dinamico e ancora sconosciuto.
Riorientiamo lo sguardo all’avvenire e riappropriamoci del futuro – L’importanza del lavorare sulle idee dei caregiver.
La possibilità di divenire adulto nasce prima di tutto nella mente di chi circonda la persona e ancora di più la persona con deficit soprattutto se di tipo intellettivo.
Lavorare sulla dimensione di adultità è un’azione che deve partire, generarsi, trovare spazio prima di tutto nell’immaginario di chi si prende cura fin da un’età molto precoce e proseguire nel rendere espliciti i presupposti, le idee, i pregiudizi, i principi, gli stereotipi, le aspettative con i quali si orientano le scelte e si decide il “cosa è giusto”. Il “pensami adulto” è un atto che devono poter compiere i caregivers da subito, a partire dall’infanzia. E’ una prospettiva che deve poter brillare nello sguardo di chi si occupa della persona con deficit poichè da essa dipenderanno scelte, si escluderanno possibilità, si imboccheranno strade…. che poi porteranno in diverse direzioni.
Accade però che di fronte alla comunicazione della diagnosi le famiglie vivono spesso una grande solitudine: si attiva un supporto in ambito medico e neuro-riabilitatorio, inizia l’iter delle terapie, ma cosa fare nel giorno per giorno? Come ricucire e ricostruire quel futuro e quell’immaginario infanti?
La famiglia è il vero protagonista del progetto di vita e per questo va orientata, sostenuta e formata per supportare il proprio figlio in un disegno esistenziale che necessita di interventi finalizzati a potenziare e rispettare la sua originale identità e la sua effettiva partecipazione sociale.
Occorre quindi riprogettare il sostegno da offrire al caregiver pensandolo non solamente in termini di “sollievo”, assistenza e aiuto, ma soprattutto supportandolo concretamente, con rigorosi progetti rivolti alla famiglia a partire da un intervento precoce, nella possibilità di ricostruirsi un immaginario circa il proprio figlio, qualunque siano le sue caratteristiche, qualunque sia la diagnosi, qualunque siano le difficoltà, e lavori insieme per porre le basi del desiderare divenire adulti poichè, così come lo è per tutti, la molla per farlo è la spinta al voler crescere trascinata dall’“emozione di conoscere e dal desiderio di esistere” [N. Cuomo 2000].
In conclusione
A nostro avviso il termine “dopo di noi” non può più essere disgiunto dal concetto di “pensami adulto” il quale richiama alla necessità di progetti educativi dinamici che si realizzano, si evolvono e maturano con la persona stessa, cuciti su misura al suo personale progetto di vita, nel procedere del tempo, degli eventi, nelle diverse situazioni. Dal punto di vista cronologico la prospettiva del “dopo di noi” inizia fin dalla nascita, poichè vive in funzione di una prospettiva dinamica e non solo di assistenza e cura.
Nell’orientare un progetto di vita è dunque estremamente importante poter sostenere prima di tutto il caregiver nel suo immaginario, orientarlo nel pensare il proprio figlio adulto, anche riscoprendo l’illusione di sognare futuri ancora sconosciuti e ricchi di differenti possibilità, indipendentemente dalla complessità degli handicap, in cui la persona con deficit possa a sua volta maturare una percezione di sé che cresce e matura non solamente in termini anagrafici, ma soprattutto in relazione ad un suo crescente potere di azione sul mondo, un poter agire, scegliere, incontrare problemi, avere una graduale assunzione di rischi e responsabilità nel rispetto delle sue originalità e anche in situazioni complesse.
Divenire adulto, affermarsi quale individuo non è solamente collegato ad una serie di competenze, a quanto so/posso fare da solo, ma al potersi pian piano costruire un proprio mondo di idee, un proprio originale punto di vista, una conoscenza dei processi di quanto ci circonda… mamma e papà non sono più tutto il nostro mondo.
La tradizione assistenzial-custodialistica (su cui poneva le basi la pratica dell’interdizione – non ancora del tutto superata) si è preoccupata di un’attenta ed accurata “manutenzione” dei beni di proprietà della persona con deficit, di un’attenta ed intelligente amministrazione dei beni materiali, di attenzione ai suoi diritti assistenziali, ma troppo poco ha posto l’accento sulla crescita dei suoi desideri, della sua intenzionalità, del potenziamento delle sue capacità intellettive e culturali anche in età adulta e anche in situazioni di grande complessità.
L’interdizione sta lasciando spazio all’amministrazione di sostegno, ma troppo poco ancora ci si occupa concretamente di vita relazionale ed affettiva, del tempo libero, delle passioni e degli interessi, del piacere, della sessualità (quando se ne parla si connota tale ambito non come piacevole ma come fonte di problemi).
Questi sono tutti riferimenti essenziali se vogliamo parlare di una qualità vita, autonoma ed indipendente e devono poter essere messi al centro dei progetti così come la convinzione che la crescita cognitiva, culturale, intellettuale della persona con deficit (pur nel rispetto degli handicap che i deficit propongono) non si arrestano al compimento dei 18 anni (età in cui passando alla sezione handicap adulto si vede di norma interrompersi un’attenzione educativa verso una più di tipo assistenziale, di mantenimento).
Una persona con deficit, avanzando nell’età, necessita di azioni permanenti che la supportino e la stimolino nella crescita dei suoi potenziali intellettivi e affettivi in quanto senza tali supporti si rischia di andare incontro ad un arresto e/o involuzione delle capacità intenzionali, del desiderio di esistere con gravi ripercussioni nell’ambito delle autonomie, della socializzazione e degli apprendimenti.
Le riflessioni e le ipotesi di intervento devono poter decentrarsi dalle economie, la salute, i bisogni di prima necessità, … questi ambiti devono poter essere garantiti non come fine, ma come mezzo per poter formulare ipotesi riguardanti i pensieri, le ambizioni, le aspettative, le affinità personali, la varietà delle relazioni, l’avere un proprio ruolo nel contesto sociale in cui si vive,…
Questo non lo si può iniziare a fare nel momento stesso in cui si avvia la pratica di amministrazione di sostegno, nel momento in cui si apre l’urgenza del “dopo di noi”, è un percorso che va costruito nel lungo percorso di vita, andando a redigere una sorta di “Testamento Pedagogico” (N. Cuomo 2014) in continua evoluzione sostenendo il caregiver in un percorso, in un viaggio di scoperta e riscoperta del proprio figlio finalizzato ad ampliare orizzonti esistenziali e, con essi, la capacità di scelta autonoma ed autenticamente originale dei percorsi dell’esistere.
Un “dopo di noi” da pensare e progettare fin dai primi anni di vita per poter tessere la trama di una narrazione esistenziale, l’insieme della storia, dei desideri, delle scelte, dei contesti e dei sostegni necessari alla persona, con le sue specifiche caratteristiche, per praticare appieno la cittadinanza attiva così come previsto dalla convenzione ONU per i Diritti delle Persone con deficit ricordando che non c’è sviluppo reale se la Persona non viene messa in grado di poter esercitare il proprio potere sia livello individuale che collettivo e di vivere così su una base di uguaglianza con gli altri, indipendentemente dalla sua condizione di disabilità.
I percorsi della conoscenza, le esperienze, l’educazione, gli apprendimenti, la didattica, … non sono rappresentati da un percorso sommatorio e lineare come, metaforicamente, uno sparo di fucile, ma sistemico, contestualizzato, articolato e complesso come, sempre rimanendo nella metafora, il volo di una farfalla [N. Cuomo, 2000]